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Tutto quello che un uomo è

Tutto quello che un uomo è Adelphi Szalay David

Autore: Szalay David
Editore: Adelphi
Collana: Fabula
Prezzo: 22,00 €

Data pubblicazione: 09/11/2017
Pagine: 416
EAN: 9788845932137
Genere: Narrativa moderna e contemporanea

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Nove uomini, in diverse età della vita, dall'adolescenza alla vecchiaia. Un continente, l'Europa oggi - da Cipro alla Croazia, dalle Fiandre alla Svizzera -, fotografato in una luce cruda, quasi senza ombre. I nove fanno quasi tutte le cose che i maschi sono soliti fare: inseguono donne, le abbandonano, tentano un affare improbabile, cercano un luogo dove vivere un esilio decente, chiacchierano, sognano un'altra vita. E se a ogni capitolo tutto - protagonista, ambiente, atmosfera - cambia, fin dal primo stacco le nove storie sembrano una sola. All'inizio stentiamo a riconoscerlo, il paesaggio che David Szalay ci costringe a esplorare, finché, per ogni lettore in un punto diverso, ciò che abbiamo davanti si rivela per quel che è, in tutta la sua perturbante evidenza: il nostro tempo, quello che viviamo ogni giorno, in forma di romanzo.

Tutto quello che un romanzo può essere

 

Da tempo gli addetti ai lavori – critici militanti, accademici –, esaurito il lamento sulla morte del romanzo, mettono in guardia sulle sue mutazioni interne causate dalle contaminazioni con la cultura del visuale. È davvero una novità? Raccontare storie non è sempre stato un mettere davanti agli occhi del lettore/ ascoltatore ciò che, in un mondo possibile di invenzione, sta accadendo? Il volume di Szalay, Tutto quello che un uomo è , riapre la discussione. Si tratta di nove racconti inanellati, come perle, nello stesso filo o siamo dinanzi alla prima valutabile conseguenza del dispositivo di Netflix sull’arte del romanzo?

La prima impressione che il lettore riceve da Tutto quello che un uomo è di David Zsalay (Adelphi, Milano 2017) è quella di un timelapse nel quale ciò che gli scorre davanti agli occhi non è la sequenza diacronica delle vite in movimento di 9 uomini diversi, di nove diversi uomini di età differenti, bensì nove diversi momenti di una medesima e paradigmatica esistenza in nove luoghi dell’Europa che hanno il tratto comune della periferia. La periferia di un mondo che ha ormai perduto la cognizione della propria centralità, oltre che del proprio centro.

Le età dell’uomo

Si tratta di nove racconti in sequenza apparentemente lineare i quali però, nella loro successione, finiscono per tradire una destinale circolarità: la quale fa già capolino nel settimo racconto per poi manifestarsi del tutto nel nono e conclusivo, dove il lettore scopre come Simon, il timido studente di Oxford al centro del primo racconto, sia in realtà nipote di Tony, il pensionato protagonista dell’ultimo capitolo. Protagonisti in effetti sono nove uomini di età differenti (dal diciassettenne all’ultrasettantenne) situati in un polittico che ci appare come l’estensione di un tema iconografico tipico di certa pittura rinascimentale: le età dell’uomo. Cosa che si manifesta in tutta la sua forza nel già citato nono e conclusivo racconto, quando la linearità presunta cede di schianto sotto il peso di una palese circolarità narrativa: e il nonno morente si trova a leggere i versi, incerti e imberbi, scritti dal ragazzino diciassettenne (suo nipote) di cui avevamo scorto il profilo incerto e problematico nel primo racconto. È a questo punto che si ha la sensazione di trovarsi non davanti a una schidionata di racconti ma a un romanzo – se non a un apologo sulla forma a spirale del trascorrere del tempo esistenziale. Nell’incontro a distanza tra nonno e nipote riemerge infatti una certa idea di paternità (quindi di trasmissione, di continuità ma anche di stasi nel movimento) di cui gli altri racconti hanno messo in evidenza la latitanza. I novi testi a questo punto si coagulano in un’unica emergenza opacamente simbolica: non nove quadri esemplari di nove vite diverse, ma la totalità e l’essenzialità di ciò che la vita di un uomo può essere in questo presente. A far da collante l’inettitudine, per tutti i personaggi, a vivere in profondità l’ordito delle proprie giornate, una paura transgenerazionale che è frutto del collasso dell’ordito logico e esperienziale che teneva unito “tutto ciò che un uomo è” attraverso le diverse età della sua vita.

Grand Tour nel continente morto

Nove racconti di uomini in movimento in un paese diverso da quello di origine. Questo potrebbe essere uno dei vettori di lettura del libro di Szalay: un grand tour in un’Europa fatta di autostrade e aeroporti, cioè che trova il suo residuo tratto unificante nei non luoghi (e nel non movimento) del turismo di massa, con la sua necessaria rimozione delle differenze e alla perdita del privilegio dello spaesamento che dovrebbe accompagnare ogni autentico viaggiare. Si tratta di movimenti, spostamenti, viaggi che non preludono a nessuna epifania consuntiva: i singoli racconti mancano di una vera e propria conclusione, sono tagliati al culmine di una scena o di una descrizione priva di pathos. Cosa che ne farebbe dei non finiti se la logica di montaggio non fosse così smaccatamente visuale, legata cioè alle logiche da serie netflix da cui il lettore contemporaneo è stato “riformattato”: la puntata successiva sarà necessaria a comprendere meglio la precedente. Ciò è ottenuto, però, ancora con le tecniche proprie del racconto moderno: la focalizzazione interna, cioè la costante adozione del punto di vista interno del personaggio raccontato, e il finale “aperto”.

La focalizzazione interna ci mostra nove personaggi sorpresi in un pantano di confusione e smarrimento, uomini egoisti, disorientati e feriti anche nelle loro convinzioni più intime e non negoziabili. Attaccati alle proprie piccolezze non sanno riconoscere l’irrompere dell’amore nella propria vita. In questo senso sembra di intravedere un filo rosso che conduce a Michel Houellebecq e al suo racconto del desiderio maschile e del suo fallimento. L’eros come mimesi imperfetta, e a ribasso, del dispositivo più populista del capitalismo: le briciole del capitalismo per poveri della Cipro del secondo racconto, ad esempio. Qui Bernard, un ventiduenne proletario francese, trova nell’epilogo felliniano della sua vacanza da “sfigato”, ovvero un ménage à trois con due turiste inglesi obese (madre e figlia, una momentanea battuta d’arresto all’emorragia del suo (desiderio).

Il racconto, o capitolo successivo, offre il profilo di una squillo d’alto bordo che simboleggia meglio d’altro l’ingresso dei paesi dell’ex blocco comunista nell’Europa del mercato e della moneta comuni: che è l’Europa del turismo sessuale interno, una terra morta dove tutti sono in fuga. Verso cosa, è difficile da comprendere. Forse verso un non-luogo dove finalmente non succeda nulla e invece, come nella bio-logica dell’esistenza, non ci sono posti in cui non accada comunque tutto l’essenziale per la vita di un uomo. Personaggi maschili spesso colti in situazioni di ordinario squallore, quasi sagome in un tela di un Hopper in balìa di droghe sintetiche.

Hanno tutto il tempo che vogliono

E questo senza alcun apparente sforzo di realismo da parte di Szalay: in anni in cui la figura e il ruolo del maschio e del padre vengono ridiscussi (talvolta con impietosa ferocia) donne, denaro, yatch, successo nel lavoro (Finanza o Accademia che sia) sono raccontati come epifanie di una mediocrità del maschile vacuo e standardizzato come qualsiasi prodotto seriale. Un comportamento che mostra segni di autenticità, di una qualche accenno di profondità e di dubbio, soltanto attraverso le crepe di cui abbonda. In questo senso esemplare sembra la storia dell’accademico (Karel, un filologo belga) in crisi profonda davanti alla prospettiva di poter diventare padre e al suo lasciar implodere l’amore di/per Waleria.

Il finale, qui, è più aperto che mai: hanno tutto il tempo che vogliono è una delle ultime frasi. Ma è vero? Si ha mai tutto il tempo che si vuole? Karel ripropone, con variazioni di tono quasi impercettibili (è questo uno dei segni stilistici più certi di questa narrazione) i tratti pertinenti anche agli altri personaggi: la problematica coscienza di sé, una angosciata coscienza del tempo che passa, il rapporto col sesso, il rapporto col denaro, l’ambizione, la paura. Non c’è Dio, e l’amore è qualcosa di estremamente labile, transeunte, inconsistente. Ognuno appare, alla fine, desolatamente solo. C’è un continuum logico in questa successione di tranche de vie? In questi nove racconti che ci portano in giro per un’Europa di grandi periferie? Lo studente in interrail, il “cervello” fuggito in un altro paese, il pappone moldavo, l’oligarca russo, il pensionato inglese che va a svernare/sopravvivere sulla costa croata – tutti scorie del vivere nell’ Europa indifferenziata della globalizzazione dei voli low cost, enorme periferia di se stessa – sono davvero nove personaggi diversi?

Circolo vizioso

In questo straniante, ma avvincente, timelapse che Tutto quello che un uomo è ci presenta, i nove personaggi sono varianti possibili di un’astrazione tanto più inafferrabile quanto più proviamo a proiettarla nel nostro tempo. L’uomo contemporaneo. Il modo in cui Szalay tenta questa messa in scena è quello del travestimento del romanzo sotto forma di circolo di microstorie. Ma il fatto di ibridare romanzo e racconto breve (come dire, Raymond Carver con Philip Roth) – visione d’insieme e singola esistenza individuale colta in un suo momento significativo, microcosmo minimalista e macrocosmo tematico-strutturale – forse alla fine rischia di soverchiare la storia con la propria stessa architettura netflix. La circolarità narrativa infatti – che di solito è rassicurante per il lettore – qui sembra perdere la sua ragione ludica fondativa, e quindi spaesare il lettore più che consolarlo. Il girotondo narrativo – col il suo miraggio di rinchiudere la mobilità dentro l’immobilità, il continuum indeterminato dentro la perfezione del cerchio – proprio in questo spaesare però, con questo disegnare la storia con un movimento a spirale, rende il romanzo improprio di Szalay un perfetto congegno per cogliere, o almeno tentarci, il contemporaneo nella miriade di immagini frante con cui la realtà ce lo offre. E se, alla fine della lettura, si potrà insinuare il sospetto che si è rimasti lontani dall’aver messo in scena tutto quello che un uomo può essere, anche nell’Europa depressa e guasta di oggi, rimane però riuscito il tentativo di fondere romanzo e racconto breve, di sintetizzare coralità e dettaglio, di armonizzare sguardo panottico e visione laterale per giungere a uno scorcio credibile di contemporaneità. E si ripensa, forse, a Sillabari di Parise.

 

Maurizio Padovano

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